La fine della storia

 

Senza capire cos'era successo, la donna sollevò appena la testa, gli occhi socchiusi. Tre visi sconosciuti le stavano davanti e la scrutavano preoccupati.

«Si sveglia, si sveglia», stava dicendo uno di quei visi.

Amelia non riusciva a ricordare dove fosse. Sentiva un peso sullo stomaco e respirare le provocava un dolore acuto al petto. Sentiva gli occhi gonfi e tenerli aperti, con quella luce strana, le costava fatica. Sentiva una delle proprie gambe ripiegate sotto di sé e un braccio estraneo che le sosteneva la schiena. Avrebbe voluto guardare in faccia quelle persone e chiedere loro cosa diamine fosse successo. Le girava la testa, però, e focalizzare i pensieri era ancora difficile. Sentì un panno freddo che le veniva posato sulla fronte e cercò di tirare un sospiro di sollievo.

Man mano che la confusione nella sua mente si diradava, Amelia cominciò a guardarsi attorno, gli occhi appena un po' più aperti. Scoprì così che dei tre visi, due appartenevano a delle donne, mentre il braccio che la sosteneva era di un uomo dai capelli brizzolati e il viso scuro. Le due donne erano le amiche di Amelia, che preoccupate si alternavano nel posarle dei panni bagnati sulla fronte e le guance. La luce, forte e brillante, era quella del sole d'agosto, che picchiava oltre la tettoia di paglia. Amelia scoprì anche di essere distesa sulla sabbia nuda.

 

«Che succe... che succede?», riuscì a dire.

«Sei svenuta. In pieno stile da romanzo d'appendice, tesoro!», disse Giulia, la sua migliore amica.

Amelia ridacchiò appena. Finalmente i suoi occhi riuscivano a tollerare la luce.

«Ci ho provato per anni a scuola, senza riuscirci mai e doveva andarmi a capitare qui in Giamaica? - disse lentamente - Ho mangiato vero? Non ho fatto la sciocchezza di saltare...»

«No, no - la rassicurò Giulia - hai fatto colazione stamattina. Non ti preoccupare.»

«Ci hai fatto prendere uno spavento! - si decise a dire l'altra amica, Fernanda - Per un attimo abbiamo pensato che volessi attrarre quel bel giovanotto lì, quello con i pantaloncini attillati...»

Amelia scoppiò a ridere, ormai pienamente in sé. «Oh Dio, Nanda! Ma che dici, potrei essere sua... be', diciamo sua zia, ecco!»

Intanto il signore giamaicano aiutava Amelia a mettersi seduta.

«Thank... you gentle...», cominciò quindi, nel suo inglese maccheronico.

Giulia le venne subito in aiuto, ringraziando Willy per lei. Amelia sbuffò.

«Ti giuro che quest'anno lo faccio. A costo che ci vediamo la notte, Giulia, ma m'insegnerai questa dannata lingua! Vedrai se non lo facciamo!»

Le sue amiche risero con lei, mentre Willy l'aiutava a rialzarsi. Proprio in quel momento un giovanotto pallido di non più di trent'anni si stava avvicinando, trafelato, nei suoi pantaloncini chiari e larghi e una maglietta che lo definiva come parte dello staff dell'albergo.

«Signora, signora. Non sono riuscito a trovare medico...», disse con il fiato corto e un forte accento tedesco.

«Solo un tedesco può venire a fare il facchino in un hotel in Giamaica, giuro!», mormorò Amelia, mentre si ripuliva il fondoschiena, non troppo signorilmente, dalla sabbia che le si era appiccicata addosso. «Non ho bisogno di un medico, grazie. - continuò poi ad alta voce - Ormai sto bene. È stato solo un colpo di calore. Stamattina ho mangiato, ma il sole è forte e se il mondo smettesse di girarmi attorno vorticosamente sarebbe...»

A quel commento le due amiche, allarmate, cominciarono ad accavallare consigli: «Siediti... la testa fra le gambe... acqua e zucchero...»

«Alt, alt... sto scherzando! Va tutto benissimo, sono stabile, vedete? - disse dimostrando che riusciva a camminare reggendosi da sola - Quindi, adesso torniamo nelle nostre stanze, ci facciamo un doccia e andiamo a mangiare, che ne dite?»

* * * *

«Salve, parlo con quella donna avventurosa, sexy e futuro amministratore della Delta-V, che non mi ha ancora raccontato com'è andato il suo viaggio nella scandalosa Giamaica?»

Amelia sorrise nel sentire la voce che parlava all'altro capo del telefono. Era un sorriso cauto il suo però; non sapeva ancora se quella chiamata sarebbe stata una piacevole sorpresa o se dovesse invece aspettarsi il peggio.

«Luciano! - disse con voce cautamente gioiosa - Non pensavo nemmeno che fossi in Italia...» E tutto mi aspettavo, tranne che ti interessasse qualcosa del mio viaggio o... di me!, aggiunse silenziosamente.

«E invece...» continuò lui, la voce roca. Amelia si allarmò. Quando Luciano usava quel tono poteva voler dire solo che l'avrebbe presto fatta sentire in colpa per qualcosa. Amelia stava appena cominciando a pensare a cosa avrebbe escogitato questa volta, ma era chiaro che il pretesto era il viaggio.

Partire per la Giamaica era stata una sfida. Avevano litigato per l'ennesima volta sul loro rapporto e su cosa significasse per ognuno di loro e alla fine Amelia glielo aveva annunciato.

«Vado in Giamaica. Con Giulia e Nanda. Mi chiedono ogni anno di partire con loro e io rifiuto sempre, per un motivo o per un altro e perché non mi va di fare da terzo incomodo con le loro famiglie. Ma la realtà è che spero, ogni dannato anno, che tu finalmente ti decida a portarmi con te e a rendere visibile a tutti la nostra relazione. Ma la realtà è che tu non hai una relazione con me, sono io ad essere impegnata con te e questo non mi va più. E dato che sono una zitella di quasi quarant'anni, ho deciso che sarò una zitella felice e me ne vado in Giamaica!», aveva sbottato alla fine, la borsa già a tracolla e pronta a lasciare l'appartamento di Luciano.

«Ah - aveva esclamato lui - dici le stesse cose ogni anno e alla fine? Ti ritrovo qui, cara la mia coraggiosa zitella. - le si era poi avvicinato, lo sguardo più mite, condiscendente - Dai, la verità è che tu non puoi vivere senza di me! È solo che t'intestardisci in certe stupidaggini, questi cliché da famiglia medio borghese, l'ufficializzare... ti annoieresti da morire a quel viaggio aziendale del cavolo, te lo assicuro... io ti conosco chérie...»

A quel punto Luciano le si era avvicinato ancora, un sorrisetto di trionfo sulle labbra, posandole infine un casto bacio sulla fronte. Quella era stata l'ultima goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Amelia si era staccata violentemente da lui e afferrando con veemenza la maniglia della porta era sbottata in un «Vedremo!», prima di sbattere la porta e lasciare dietro di sé quella relazione-non relazione con il presuntuoso Luciano.

«Sono rimasto lì solo due giorni. - stava dicendo ora Luciano - La domenica sera ho fatto le valigie e sono tornato in città. Non sono neppure passato dal mio appartamento, mi sono fiondato direttamente da te. Ma tu non c'eri e, be', ho trovato Missy dalla tua vicina e l'ho portata con me. Marilena mi ha detto che saresti tornata solo la settimana dopo e...»

«Sì, Luciano, sì. - lo interruppe lei sbrigativa - E poi, per evitare di irritarmi l'hai riportata da Marilena, il giorno prima che tornassi, così che io non mi accorgessi che avevi portato la mia gatta da te, perché così potevi avere una parte di me e bla bla bla... Marilena mi ha raccontato tutto, anche il modo in cui ti sei premurato di farle capire bene cosa e come dirmelo!»

«Sei ingiusta adesso, Amelia.»

Il fatto che avesse utilizzato il suo nome e non qualcuno dei suoi gallici e leziosi appellativi, significava che aveva smesso di nascondere la propria irritazione. Finalmente, pensò lei. Amelia riusciva a tener testa al Luciano immaturo e rancoroso, perché faceva di tutto per essere antipatico e ci riusciva. Era quando i suoi modi cambiavano e diventava tutto dolcezze e moine, che Amelia non riusciva più a mantenere la propria lucidità.

«Sono io quella ingiusta, vero? Ti ho detto che sarei partita per la Giamaica quasi tre settimane prima che tu partissi. Se avevi intenzione di passare con me il resto delle ferie, perché non me l'hai detto allora, eh?»

«Sai bene che ho dei doveri. Ho una posizione importante. Quando ho visto com'era la situazione, ho capito che mi sarei potuto allontanare...»

«Oh! - lo interruppe ancora lei - Ci mancherebbe altro! Certo, dovevi prima controllare che i poveri plebei si potessero divertire anche senza il principe. Mentre il ranocchietto qui aspettava che qualcun altro decidesse come doveva passare anche lei le sue cazzo di ferie al contagocce! Ma cosa ti credi di essere...», si interruppe. Per un attimo le mancò il respiro. «Basta Luciano. - disse infine, con voce pericolosamente calma - Adesso basta. Vatti a far curare le tue manie di grandezza o la sindrome di Peter Pan o quello che diamine ti piglia in testa, e lasciami vivere in pace, ti sta bene? Ci sono momenti in cui le cose finiscono. E per me è finita!»

* * * *

«Ciao zia, ti disturbo?»

Amelia sorrise felice, stavolta, al sentire la voce della sua piccola peste. Il telefono non aveva smesso di squillare un istante quel giorno, ma quella era la prima telefonata che gradiva davvero.

«Assolutamente no! Lo sai che sei...»

«La tua nipotina preferita...»

«Nonché l'unica!»

Entrambe scoppiarono a ridere per quel loro giochetto usuale. «Come stai, Erica? - continuò Amelia - Non ci vediamo da quando sono tornata dalla Giamaica, tesoro. È già ricominciata la scuola?»

«Eccome! - rispose la ragazzina, sbuffando - E sai cosa succede quando la scuola inizia no?»

«Uhm... vediamo... - disse la zia, fingendo di pensarci su - di solito scopri qualche nuovo ragazzo che ti piace e non ti si fila... hai un nuovo prof che ti odia... e... ah sì, tua madre comincia a vietarti di uscire e andare in un posto qualsiasi che non sia la scuola.»

«Ehm... no, stavolta non ci hai beccato, zietta! Ti sei dimenticata quella più divertente... - la voce di Erica cominciò ad abbassarsi - È anche quando mamma e papà, di ritorno dalle vacanze, decidono che è arrivato il momento di...»

Amelia si portò una mano alla fronte, dove una fitta insistente cominciava a farsi sentire. Parlare di sua sorella e del marito le procurava sempre dei forti mal di testa. «No, ti prego non me lo dire! Hanno ricominciato con la storia del divorzio?»

Erica sospirò. «Eh già. Un'altra volta.»

Amelia sentì che la voce di Erica tremava appena.

«Ne sei sicura tesoro? Sai come sono fatti i tuoi genitori...»

«Amì, me ne voglio andare da qui, non ce la faccio più. Non ci pensano mai a me.», sbottò allora la nipote. Amelia continuò a massaggiare la tempia dolorante.

«Allora facciamo così: domani ti vengo a prendere a scuola e ti porto a pranzo fuori. Così ne parliamo con calma e mi racconti tutto. Ti va?»

* * * *

Per la terza volta quel giorno Amelia sentì il bisogno di andarsi a chiudere in bagno. L'unica ragione per cui aveva accettato di passare la domenica a casa di sua sorella stava seduta accanto a lei, con gli occhi gonfi e le mani serrate sul bordo della sedia. Ed era anche l'unica ragione per cui non si era ancora andata a chiudere in bagno. Erica era sull'orlo di una crisi di nervi e Amelia non aveva idea di come aiutarla. All'ennesimo insulto, nemmeno tanto velato che Clara, sua sorella, lanciò contro il marito Nicola, Amelia non ne poté più. Vedendo che il cognato si accingeva a rispondere per le rime, Amelia sbatté con violenza una mano contro la tavola apparecchiata, facendo tintinnare pericolosamente i bicchieri di cristallo del corredo di Clara.

I due coniugi si immobilizzarono per un attimo, fissandola a bocca aperta.

«Volete divorziare? - chiese Amelia, con voce falsamente dolce - E allora fatelo per Dio!», urlò quindi.

Ignorando il dolore che si stava propagando sempre più veloce sul lato destro della sua povera testa, Amelia continuò imperterrita a sfogare su Clara e Nicola tutte le frustrazioni alle quali Erica era sottoposta ogni giorno e che le aveva confidato.

«Sapete che vi dico? - disse infine - Erica viene a stare da me. Una settimana, due, un mese, un anno... fino a che non vi rendete conto di quello che vi state facendo e ci date un taglio una volta per tutte. Non mi interessa che soluzione scegliete, basta che lo fate e senza coinvolgere questa ragazza che con le vostre stupide beghe non ha niente a che fare!»

Clara si decise finalmente a chiudere la bocca e con uno sguardo pieno di risentimento cominciò a ricordare ad Amelia tutte le ragioni per cui le due sorelle non si erano mai piaciute in quegli ultimi quarant'anni.

«Ed eccola qui la nostra manager rampante. - cominciò - Cosa ne vuoi sapere tu di problemi di famiglia? Non riesci nemmeno a tenerti un uomo da Natale a Santo Stefano e vuoi dare consigli a me su come mandare avanti la mia famiglia? Non puoi intrometterti nelle nostre discussioni, non puoi giudicare me come madre, quando tu hai fatto di tutto per negarti qualsiasi possibilità di avere figli tuoi e una famiglia tua. Rimani nel tuo ufficio a fare i conti e lascia stare mia figlia dov'è!»

Amelia non riusciva più a controllare la sua emicrania e una fastidiosa nausea cominciava a farla tremare. Incurante ormai delle parole della sorella si alzò barcollante dalla tavola e andò a cercare rifugio in bagno.

Erano passati dieci minuti, quando sua nipote andò a bussare alla porta del bagno. «Stai bene zia?», domandò con una vocetta spaventata.

Amelia aprì la porta sul visino sconsolato di Erica e si sforzò di sorridere. «Sì tesoro. Va tutto bene, è solo la mia solita emicrania.»

«Papà è uscito sbattendo la porta e mamma si è andata a chiudere nella sua stanza. Mi ha detto di fare quello che volevo.», continuò Erica, riaccompagnandola in sala da pranzo.

«Fa' le valige che io chiamo il taxi. Ce ne andiamo a casa mia e se hanno qualcosa in contrario, stavolta quanto è vero che mi chiamo Amelia Castorini, chiamo la nonna... allora sì che tua madre si fa passare l'isterismo. Vedi se non è così!»

* * * *

«Ancora la sua emicrania dottoressa? Dottoressa Castorini?»

La voce della sua segretaria la raggiunse sfocata. Le dita di Amelia massaggiavano insistenti le tempie, senza che però la sua testa ne avesse un qualsiasi sollievo.

Riuscì solo con grande sforzo a scuotere la testa, cercando di far capire a Cristina che andava tutto bene.

«Vuole che le porti qualcosa?»

«No. - riuscì a mormorare - No, davvero, sta passando... passa sempre...»

* * * *

Amelia aveva finito le lacrime. Non credeva nelle preghiere da... già, da quando aveva smesso anche di pregare? Avrebbe dovuto ricominciare adesso. Scoppiò a ridere. Cominciò a ridere forte, così forte che per un attimo pensò che Erica, nell'altra stanza, si sarebbe svegliata.

Avrebbe dovuto dirglielo. Avrebbe dovuto raccontarlo a qualcuno, a Giulia, a Nanda... doveva dirlo a Cristina. Cristina aveva una famiglia da mantenere, con il marito in cassa integrazione e i bambini... doveva assicurarsi che non le succedesse niente dopo che...

* * * *

«Non posso più tenere Erica da me.»

«E me lo dici così? Ti sei stancata di fare la mamma, eh! Dovrei ricordarti che sei stata tu a mettere mia figlia contro di me? Ora cosa fai, le dici che la zietta non può più fare la dolce confidente? Cosa c'è stavolta, un altro viaggio alle Bahamas?»

Amelia era ormai diventata insensibile alle cattiverie di sua sorella, al suo risentimento. Aveva sempre pensato che fosse invidiosa di lei e della sua carriera, frustrata per non essere riuscita a creare qualcosa solo per se stessa e giustificava così i tanti litigi che avevano costellato la loro vita di sorelle. Sapeva, però, che Clara in fondo doveva avere qualche buon sentimento nascosto in fondo all'anima. O forse era proprio per la sua mancanza di pietà che aveva deciso di dirlo a lei per prima. Era sua sorella in fin dei conti.

«Ho un tumore al cervello.»

Esisteva un modo più dolce di dirlo? Amelia non aveva nessuna intenzione di scoprirlo. Non voleva essere gentile, non voleva rendere le cose più facili. Per questo lo aveva detto così, per questo lo aveva detto a Clara per prima.

Sua sorella si sedette di fronte a lei, al tavolo della sua cucina. La cucina di Clara era perfetta, con le tendine a quadretti scozzesi che si intonavano alle tazze in credenza. Aveva un orologio a cucù appeso al muro che le ricordava ogni ora il gioioso passare del tempo. Mai come in quel momento Amelia avrebbe voluto spaccare a martellate quel maledetto orologio a cucù.

Gli occhi della fredda Clara si gonfiarono di lacrime. «È uno scherzo idiota, lo sai vero?», disse senza asciugare le gocce che già scendevano sulle guance.

Amelia scosse la stessa, cercando di trattenere le sue di lacrime. Non voleva più piangere. Sua sorella prese un fazzoletto candido dalla tasca della vestaglia e si asciugò con estrema cautela gli occhi appena truccati. Dopodiché si fermò un attimo a controllare che il fazzoletto non fosse sporco di mascara. Alzò gli occhi su Amelia quindi.

«Di' a Erica di tornare a casa. - disse - Dille che abbiamo risolto con Nicola e che non ci saranno problemi, che non abbiamo nessuna intenzione di divorziare.»

* * * *

La stanza di un ospedale non è diversa da quella di una clinica privata, pensò Amelia. Non era vero, lo sapeva anche lei, ma aveva la sensazione che niente ormai avesse più importanza. Né i soldi, né la posizione sociale. Le faceva rabbia la consapevolezza di averlo saputo anche prima, di averlo detto addirittura, in chissà quali discussioni intellettuali sulla vita...

«Il dottore mi ha detto che passerà appena ti sei sistemata.», disse Clara con voce stanca, entrando in quel momento nella sua stanza. La valigia era già aperta sul letto, ma Amelia non aveva toccato niente. Se ne stava immobile a fissare le sue camicie da notte, comprate nuove per l'occasione. Aveva un mezzo sorriso sulle labbra, incapace di decidere per cosa esattamente stesse sorridendo.

Clara le si avvicinò e senza nemmeno sfiorarla, cominciò a prendere le camicie e la vestaglia dalla valigia. Silenziosa, faceva avanti e indietro dal letto al piccolo armadio, riponeva tutto con cura.

Non aveva mai creduto di poterlo pensare, ma in quel momento Amelia era felice che Clara fosse sua sorella.

* * * *

Erica era seduta a guardare la televisione sul divanetto del soggiorno, quando Amelia arrivò a casa di sua sorella quella sera. Nicola, che era venuto a prenderla, la seguiva con la sua piccola valigia. Clara uscì dalla cucina con in mano uno straccio, intenta ad asciugarsi. Dalla cucina arrivava anche l'odore di una di quelle elaborate cene che impegnavano sempre la sorella. Si scambiarono uno sguardo, prima lei e Clara, poi Clara e Nicola.

Erica nel frattempo si era alzata e con uno sguardo allegro si dirigeva verso la zia. Qualcosa però nell'espressione di Amelia la fermò. Gli occhi della ragazzina si abbassarono sulla valigia e una smorfia preoccupata le salì alle labbra.

«Papà?», disse tremante.

Nicola abbozzò un sorriso. «Zia Amelia viene a stare da noi per un po'.», le rispose.

Clara si avvicinò a loro e chiese ad Erica di sedersi sul divano con lei, mentre Nicola e Amelia si sedevano al tavolo da pranzo.

«Erica, - disse allora la madre - zia Amelia sta poco bene. La settimana scorsa, quando è stata in clinica... le hanno detto che deve sottoporsi a delle cure e, noi vogliamo aiutare la zia, vero?»

Amelia guardò la nipote che annuiva alla madre, ipnotizzata dagli occhi di Clara, dalla sua voce calma. Capì che anche lei aveva bisogno di quella sicurezza, che aveva bisogno di sua sorella e di sua madre. Capì che Clara aveva ragione, che niente e nessuno può insegnarti come essere madre. Lo si è e basta.

* * * *

«Smettetela. - chiese Amelia - Non voglio essere tirata su di morale. Non voglio imparare l'inglese. Non voglio stare bene e tornare a lavoro... Lo volete capire? Non è per la malattia, non è per la morte... è per la vita. La mia vita.»

Giulia e Nanda rimasero in silenzio, cercando di mantenere delle espressioni neutre. Clara entrò in quel momento in salotto, portando delle tazze di tè verde fumante e come se non avesse sentito le urla della sorella, cominciò a distribuirle fra le amiche. Poi passò una mano sulla testa di Erica che guardava la zia, stranita, e si andò a sedere vicino a lei.

«Erica... perché non vai a prendere lo zucchero?», chiese Amelia, cercando di controllare la voce.

Clara inarcò un sopracciglio. «Erica stai dove sei. Fa' sentire anche a tua nipote i tuoi deliri da malata, forza. Non credo che la scioccheranno più dei nostri litigi. Magari impara anche qualcosa dai vostri discorsi profondi ed eruditi.»

La voce di Clara era dolce. Stranamente, Amelia non aveva mai fatto caso a quanto fossero dolci le cattiverie di sua sorella, a volte.

«Quando questa storia sarà finita e mi guarderò indietro, perché dovrò guardarmi indietro a quel punto, lo so... non mi sarà di alcun conforto pensare ad una vacanza in Giamaica... Non volevo una carriera. - continuò allora sommessamente - Né viaggi premio, né qualifiche, né strette di mano. Non volevo essere ammirata perché sapevo condurre una riunione meglio di un uomo. Ho sempre saputo di poterlo fare, ma non l'ho mai voluto. Il primo giorno che sono entrata in quell'ufficio, ho pensato: la mia vita sarà così per sempre? Mi rimarrà solo questo? E mi sono risposta di no. Che un giorno o l'altro sarebbe cambiato qualcosa, che in quel momento non c'era altro e dovevo farmi bastare il lavoro. Che l'affetto, che la famiglia sarebbero arrivati in qualche momento. E invece non sono arrivati. Ho fatto finta che andasse tutto bene, guardavo mia sorella e mi dicevo che ero fortunata a non essere come lei, che io ero una donna di successo, che io non potevo commettere errori perché mi guardavo dentro e leggevo i libri di psicoanalisi e facevo la femminista, quando invece...»

Amelia guardò sua sorella dritto negli occhi e scosse la testa, come a negare quello che lei stessa stava per dire.

«Quando invece, forse, era proprio lei che volevo essere. Volevo pure i litigi... - ridacchiò, fra le lacrime - Anzi no, volevo soprattutto i litigi e forse è solo per questo che stavo ancora con Luciano. Perché almeno avevo qualcuno con cui litigare, qualcuno con cui provare che ero ancora viva. Voi lo sapete che vuol dire tornare a casa ed essere soli?»

Amelia si morse le labbra. Nessuna delle donne che stava davanti a lei lo sapeva. Ognuna di loro aveva qualcuno da cui tornare ogni sera, qualcuno con cui parlare, con cui litigare magari, da baciare quando le cose andavano bene, da cui farsi abbracciare quando tutto andava storto.

«Volevo un mutuo ventennale. Le bollette a fine mese da pagarle all'ultimo momento, perché forse i soldi non bastavano. Volevo farmi venire il mal di testa a furia di capire come farci rientrare pure il terzo figlio nelle spese di casa. Volevo le ginocchia sbucciate e i fiori per San Valentino o anche niente, anche solo la possibilità di arrabbiarmi perché non c'era nessun regalo. Volevo qualcuno con me, adesso. E non esiste una consolazione a questo. Anche se davvero il matrimonio di Clara fosse il peggiore possibile a questo mondo, nessun cattivo esempio può riempire il vuoto...»

Erica si alzò dal divano e andò a sedersi a terra accanto alla zia, le spalle poggiate alla poltrona. L'abbracciò e le asciugò le lacrime con il fazzoletto candido che le aveva porto la madre.

«Non ho paura di morire, ma non voglio morire da sola. Vorrei avere un'altra possibilità, vorrei tornare indietro e capire quando è stato che ho smesso di sperare, quando è stato che mi sono rassegnata a questo.», disse infine, tirando su col naso. Stropicciò i capelli della nipote che la guardava comprensiva. «Hai più giudizio tu, Erica, di questa scema di tua zia, lo sai?»

«Certo che lo sa.», mormorò Clara, la voce dolce.

* * * *

«Fanno 80 euro e 37 centesimi, signora.»

«Aspetti solo un secondo... non trovo mai niente in questa borsa enorme...»

«Dottoressa Castorini...»

Amelia si voltò verso la voce familiare che la chiamava.

«Dottor Agresti, buongiorno...», balbettò appena, portando automaticamente una mano al fazzoletto che aveva avvolto in testa. «Abita anche lei qui in zona?»

Il barbuto dottor Agresti, suo collega negli ultimi quindici anni, le sorrise con fare paterno.

«Eh già, cara dottoressa, vivo qui da ben cinquant'anni ormai e mi servo in questo market da altrettanto tempo credo e non l'avevo mai incontrata! È curioso.»

«Già... - Amelia abbassò lo sguardo sui suoi sacchetti, mentre porgeva le monete alla cassiera - ma è che questa è la prima volta che faccio la spesa in vita mia, sa? Di solito Cristina era così gentile da prendere anche per me qualcosa quando usciva a fare la spesa. Tanto non mangiavo mai a casa...»

«Ci manca in ufficio, sa?»

«E voi mancate a me, mi creda. Mangiare da sola non mi è mai piaciuto...», rispose Amelia con un sorriso stentato.

«Si rimetta presto, mi raccomando.»

«Ce la metto tutta.», mentì Amelia.

* * * *

«Sei sicura di non voler tornare a stare qui ancora un po'? Non disturbi affatto, lo sai... anzi... Anche mamma starebbe più tranquilla.»

«Sì Clara, lo so, ma è che tu e Nicola siete troppo pacifici ormai, mi sento in colpa. Ho paura che vi tratteniate per me...»

«Amelia, è il tumore che ti fa dire idiozie? Io e Nicola non ci siamo mai trattenuti, per nessuno... Nemmeno per Erica. Ed è questo che ti mandava in bestia, no? Stai tranquilla, non è colpa tua adesso, se non litighiamo più tanto è che...»

Amelia si convinse che il viso di Clara si era incupito. «Avete deciso di divorziare alla fine?»

Clara scoppiò a ridere. «No, ma che dici! Sono incinta!»

Amelia si unì alla risata della sorella. «Siete pazzi. Metterete al mondo un altro infelice, lo sai?»

«Oh sì, - rispose Clara, continuando a ridere - esattamente quello che avevamo in mente. Renderlo il più infelice possibile. Ah Amelia, noi non ci siamo capite mai, vero? Io non lo so che dicono i libri che leggi tu su come si fa a fare i genitori. Io so solo che è una cosa che fa paura e che nessuno ti può insegnare. Perché qualsiasi cosa fai può essere tanto quella sbagliata quanto quella giusta, nessuno può saperlo prima. Io e Nicola abbiamo deciso di non nascondere mai niente a nostra figlia. Siamo fatti così e il mondo è fatto così, di cose brutte e di cose belle. Avremmo dovuto essere certi che Erica lo capisse, suppongo. Certo, adesso è chiaro. Però è così che va, si sbaglia e si ripara. E poi si va avanti.»

* * * *

«Ziaaaaaaaaaaaaaaa. C'è uno al telefono per teeeeeee.», urlava Erica dalla sua stanza.

Clara alzò gli occhi al cielo, mentre sorridendo Amelia alzava la cornetta del telefono in cucina.

«Cosa fai, scrocchi pranzi a quella megera di tua sorella?»

La voce di Luciano era allegra e fastidiosa come sempre. Amelia sospirò. Poi cercò di riprendere fiato.

«Amelia?», chiamò allora Luciano, come preoccupato per il prolungato silenzio.

«Luciano.», rispose lei semplicemente.

Clara si sedette di colpo sulla sedia di fronte alla sua e spalancò gli occhi. Amelia si morse le labbra, mentre Luciano cominciava uno dei suoi lunghi monologhi su se stesso e su quello che aveva fatto durante gli ultimi dodici mesi da quando si erano lasciati, o meglio: da quando Amelia lo aveva lasciato.

Amelia fece cenno a sua sorella di lasciarla sola e con sua grande sorpresa la vide poi alzarsi e uscire.

«Luciano, chi ti ha detto che ero qui?»

«Chérie, hai messo il trasferimento di chiamata, ha risposto Erica... sai ho fatto due più due...»

Di nuovo i nomignoli. Di nuovo la voce roca e accattivante. Stavolta però non serviva più a niente.

«Allora riformulo la domanda: perché mi cercavi?»

«Mi manchi. Pensavo che potevamo andare a prendere un caffè... magari ti vengo a prendere dopo pranzo così ti salvo dalla famiglia im-perfetta...»

«Forse non voglio essere salvata stavolta e di certo non da te.», replicò asciutta.

«Non ti sto chiedendo niente, Amelia, solo di vederci per un caffè. Hai paura di me?»

«Mi vuoi vedere? Vieni qui da mia sorella, dopo pranzo.»

«Stai scherzando?»

Amelia sorrise, amara. Poteva sentire la paura nella sua di voce adesso. Forte e chiara.

«Va bene.», capitolò Luciano, fin troppo facilmente. Chissà cosa gli serve, pensò Amelia, cattiva.

«Sei impazzita?», chiese Clara, mentre lei riponeva la cornetta.

Amelia scosse la testa ridendo. «Non potevi esserti arresa così facilmente, avrei dovuto capirlo!»

«Ci mancherebbe! Tu hai chiesto a Luciano, quello che mi chiama megera, di venire qui in questa casa?»

«Non ti preoccupare. Appena vedrà questo - disse indicando il fazzoletto che le velava la testa - il caro signor Peter Pan se ne scapperà a gambe levate. È allergico a cose del genere, credimi.»

* * * *

«Me lo ha detto Nanda.»

Amelia non rispose, non subito. Si alzò dal divano e per un attimo si pentì di aver mandato Clara e il marito in cucina. Aveva bisogno di qualcuno su cui posare gli occhi, qualcuno che le ricordasse la realtà. Perché la voce grave di Luciano, gli occhi seri non erano la realtà, erano qualcosa a cui non era abituata.

E invece no, era quella la realtà. D'un tratto tutto le ricadde addosso come un secchio di acqua gelata. Le cure, la chemio, il dolore. Cullata e coccolata dalle sferzanti battutine di Clara, dal rispettoso silenzio di Nicola e dall'affetto di Erica, Amelia aveva quasi dimenticato per un attimo la realtà e cioè che stava per morire. Le cure allungavano la distanza dalla fine, ma non erano infinite, lo sapeva bene.

«L'ho incontrata ieri in un bar, durante la pausa pranzo. - stava dicendo adesso Luciano - Le ho chiesto come stavi e lei non mi ha risposto. Ha parlato per un po', questo sì, ma non mi ha detto proprio niente. Ho cominciato a fare le mie solite battute sceme, quelle che ti facevano arrabbiare, sperando che mi dicesse qualcosa, una cosa qualsiasi... che te n'eri scappata di nuovo in Giamaica, che stavi benissimo e avevi trovato uno meglio di me. Avrei gradito qualsiasi cosa, credimi, ma non la faccia che aveva. Continuava a non rispondere in modo diretto, non mi ha rimproverato, non mi ha detto che ero uno stronzo perché mi ero lasciato scappare te... le cose che mi diceva sempre...»

Amelia tossicchiò, continuando a girovagare per la stanza, senza girarsi verso di lui.

«Non lo so come ho fatto, perché lo sai che non sono mai stato molto sveglio. Però l'ho capito subito che c'era qualcosa che non andava, prima ancora di chiederle come stavi.»

«E com'è che sei qui allora?», bisbigliò allora Amelia. Subito si portò una mano alla bocca incredula di aver davvero pronunciato quelle parole.

«Che vuol dire perché sono qui?»

Adesso Amelia lo riconosceva. Il tono sgarbato e irritato. La voce tagliente. Odiava la sua serietà, odiava il tono calmo che si era imposto, quello che si usa con la gente malata.

«Voglio sapere come stai o forse non sono più degno nemmeno di questo? Vuoi che mi metta in ginocchio e ti chieda perdono? Non so nemmeno di cosa dovrei farmi perdonare!»

Amelia si girò lentamente verso di lui. «Ti ha cercato lei vero? È venuta a pescarti dicendoti che stavo male, non è così?»

Luciano la guardò stranito. «Pensi che abbia inventato tutto? Pensi che Nanda mi sia venuta a raccontare qualcosa di sua spontanea volontà? Si vede che non le conosci le tue amiche. Proprio come non conosci me. Negli ultimi dieci mesi non ho fatto altro che alzare quel maledetto telefono e comporre il tuo numero, per poi sbatterlo giù subito dopo. Che ti dovevo dire? Tu ti volevi sentir dire cose che io non sapevo nemmeno pensare. Forse mi mancavi, non lo so. Forse mi mancavano solo le nostre abitudini. E quando nemmeno tu chiamavi mi dicevo che allora stavolta era finita davvero, che ci credevi e io non avevo niente per riportarti indietro. Non sono mai stato John Travolta, vado per i cinquanta e si vede e tu... tu sei tu...»

Amelia si lasciò cadere su di una sedia, la faccia rivolta verso la porta d'ingresso.

«Perché non sei scappato appena mi hai vista così? Non ti faccio abbastanza paura adesso?»

Luciano nascose il viso tra le mani e sospirò. Quindi si alzò dal divano sul quale era seduto e si avvicinò ad Amelia. La sua mano si tese verso di lei, quasi ad accarezzarla. Poi cadde giù, stanca e sconfitta.

«Un giorno mi sono svegliato nel mio letto e mi sono reso conto che non c'eri. Non è stata una bella sensazione. Quando Nanda mi ha detto che avevi un tumore, quando mi ha detto che stavi male, mi sono reso conto che potevi anche non esserci mai più, non solo nella mia vita. Ho pensato ad Erica. Non è strano? Tua nipote l'avrò vista due volte nella mia vita e ho pensato che sarebbe stata malissimo senza di te.»

Amelia sollevò gli occhi su di lui, lo scrutò per un attimo. Poi si alzò di scatto dalla sedia e si allontanò da lui, ma sempre tenendo il suo sguardo fisso su di lui.

«Non farlo Luciano. Non farmi questo. Tu non sei così. Sai perché ti ho lasciato... tu non c'eri nella mia vita, non ci sei mai stato per me. Non puoi ricordarti di me adesso, adesso che sta finendo... non avrò più il controllo della mia vita, dovrò affidarmi agli altri e non so nemmeno per quanto. Non posso credere in te adesso, ai tuoi cambiamenti, non ne ho più il tempo.»

«Non ci credere allora. Non ti chiedo niente, voglio che sia tu a chiedere a me. Farò tutto quello che vuoi. Se vuoi che me ne vada, se vuoi che non ti cerchi più, io prendo quella porta e non mi faccio più vedere, te lo giuro. Se hai bisogno di me, io ci sono. Vuoi un'autista, vuoi un cuoco... no quello meglio di no...»

Amelia scoppiò a ridere.

«Sai cosa mi fa rabbia davvero? Che quello che dici adesso avrei voluto sentirlo prima. Avrei voluto godere della tua compagnia quando ero ancora viva, quando avevo ancora un

futuro. Adesso non ha più importanza. Se anche tu fossi cambiato davvero, se anche votassi del tutto la tua vita a me, a che mi servirebbe adesso?»

«Si ama a termine allora? C'è una data di scadenza?»

«Tu nemmeno lo sai cos'è l'amore.»

«No, hai ragione, non lo so. Spiegamelo tu. Di cosa si ha bisogno per amare e chi lo decide quando è amore e quando non lo è? Adesso io non posso amarti perché sono stato un idiota? O forse è perché non hai più i capelli? È per i figli? È perché stai morendo? Be', stiamo morendo tutti Amelia, prima o poi stiamo morendo tutti... Non lo so cos'è l'amore perché non lo so chiamare così. Non sono mai stato convinto che un pezzo di carta e una fede facciano una qualche differenza. Per questo non posso amare?»

«Non ti voglio per pietà o per senso di colpa!», urlò allora Amelia.

«Pensi che sia tornato da te solo perché stai male? Sarebbe bastato che mi chiamassi, anche solo il giorno dopo. Sarebbe bastato niente e io sarei tornato da te, se tu mi avessi voluto... Io però non posso diventare diverso da come sono. Ho accettato il fatto che non ero come volevi e mi sono fatto da parte.»

Amelia lo guardò dritto in faccia, chiedendosi ancora una volta se fosse sincero. La verità è come un battito di farfalla che ci sfugge tanto è veloce. Forse non avrebbe mai saputo cosa era giusto e cosa no, non avrebbe mai avuto la certezza di niente. Forse l'errore stava proprio lì in quella agognata e irraggiungibile verità.

«Nessuno è come lo vogliamo, vero?», disse infine.

«No Amelia, temo che ci sia sempre qualcosa che non va in ognuno di noi. Di te però mi andava bene tutto, te lo giuro.»

Amelia chiuse gli occhi. «Ho paura...»

Luciano si avvicinò a lei, timidamente. Alzò una mano, coraggiosa stavolta, e le accarezzò piano la guancia. Poi con l'altra le strinse una spalla.

«Mi ci dovrò abituare mi sa. A non essere il solo che ha paura, dico.»

Amelia si strinse a lui. «Ci dobbiamo abituare a tante cose.»

«Sai... mi sa che per una volta mi sono sbagliata. - disse Clara a Nicola, abbracciando la figlia - Forse non è vero che le cose sbagliate devono finire per forza...»

«Erica, - rispose allora Nicola - per favore segna questa data sul calendario!»

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