V
Abbasso tutti i finestrini della macchina, salutando per l'ultima volta l'aria che mi ha tenuto caldo dentro la macchina per tutti questi chilometri. Adesso, mi sferza una piacevole ondata di aria fresca.
La radio è muta, preferisco il rumore del mondo di fuori, la macchina, le ruote, il cicalio e la musica del mio silenzio.
Do un'occhiata alla lancetta della benzina, che non si alza. E' terminata, ma finchè ne rimarrà un solo goccio, questa strada la percorro sino a quanto potrò.
E' ormai da una notte che corro per la strada, lungo percorsi quasi identici.
Il rettilineo, la carreggiata opposta, la galleria, la curva, il guardrail. E' un dejà-vu insistente, un racconto ripetuto e del quale ho assaporato i mille particolari.
Il tempo si è fermato, la luce del mattino si è stabilizzata in un azzurro tiepido, il sole non si alza.
La mano volteggia al di fuori del finestrino.
Una volta ancora, ripercorro il rettilineo ma adesso il suo asfalto è più chiaro. Non si incontrano altre automobili adesso, neanche nella corsia opposta: sono il padrone incontrastato della strada, e se non fosse per il canto di qualche uccello, direi che sono l'unica forma di vita. Rivedo la galleria, che mi si pone innanzi abbracciandomi ed invitandomi nel suo grembo. Al suo interno, le luci appaiono molto meno fredde di prima e si alternano seguendo la danza tratteggiata delle linee sull'asfalto. La mano si riscalda al calore stantio della galleria, la apro e muovo le dita come ad afferrare ciò che sta fuori di me.
Quando giungo alla fine, mi aspetta nuovamente la galleria. Vedo lo stesso guardrail di prima, ma ancora integro, e nessun uomo indaffarato a cercare la vittima dell'incidente.
Qualche metro più avanti, mi aspetta un bambino.
E' solo, nessuno che l'abbia portato lì. Non sembra preoccupato, anzi. Aspetta pazientemente qualcosa, o qualcuno, appoggiato sul guardrail mentre dondola le piccole gambe.
Alza il braccio e piega di lato il capo, annuendo. Io rallento ed accosto. Lo conosco. Quante volte lo ho incontrato nell'unica foto della sua infanzia tra le braccia di una donna dal grande cappello che le copre in parte il viso.
Sobbalzo sul sedile quando lui apre la portiera ed entra in macchina, e mi si siede accanto.
Eccoti, dunque.
Mi aspettava. Stringe tra le mani un cofanetto in legno di ebano, mi guarda e sorridendomi lo apre.
Si tratta di una di quelle macchine del tempo che da piccoli talvolta si costruisce, raccogliendo tutti i giochi dell'infanzia ed i primi disegni e le prime parole scritte su pagine imbarazzate di piccoli quaderni di scuola, che poi si apre una volta anziani, a riassaporare per un attimo ancora il passato e quello che i ricordi riescono a trasmettere.
Dovresti riconoscerla.
Non riesco, o non voglio farlo. Gli occhi blu del bimbo mi guardano severi. Si avvicina a me, mi porge la scatola.
Ti prego, aprila.
Perché dovrei, mi domando.
Abbiamo entrambi bisogno che tu la apra, allo stesso identico modo. Non ha senso la fuga, ormai dovrebbe esserti chiaro già tutto. Quello che deve essere fatto sempre prima di partire per un viaggio è il bagaglio. Questo è il nostro.
In che senso, mi chiedo cercando di fingere a me stesso. Sta sorgendo l'alba, e le mie idee si schiariscono rapidamente.
Così ritorna il sorriso di alberi fioriti ed il volo antico di cento farfalle e mille colori, colori proibiti. Gli occhi del bambino li riconosco adesso, blu come quella donna, blu come i miei. Grandi e con un taglio orientale, come quelli del padre, come i miei.
Il destino è ineluttabile, però non sempre è amaro. Pur rimanendo se stesso, dà talvolta la possibilità che lo si possa interpretare diversamente, offrendo altre chiavi di lettura, ed offrendo il modo di essere accettato nella maniera meno drammatica possibile.
Voltati indietro, per favore.
Lo ascolto, e vedo le luci di una automobile che si avvicina dalla galleria a grande velocità. Imposta male la curva, senza rallentare, schiantandosi di netto sul guardrail. Mi viene da urlare, ma la voce non esce, neppure quando l'automobile sparisce giù dal ponte regalando dopo qualche secondo un lontano bagliore cremisi. Il mattino si fa silenzioso, il suo profumo lotta con quello delle ruote che hanno sagomato sull'asfalto due lunghi serpenti neri.
Le lacrime si perdono sul viso, ma non mi sento più triste di quanto mi sentissi all'inizio di questo mio viaggio.
Il bambino avvicina al mio petto la sua macchina del tempo.
Questo è il nostro bagaglio.
Afferro lentamente le sue mani e quell'oggetto, lui mi sorride innocente e si sposta con la schiena verso la portiera della macchina, senza volere però uscire.
Guardo il cofanetto. Posso apprezzarne gli angoli smussi ed i tratti un po' invecchiati.
Quando decido di aprirlo, ne esce una intensissima luce dorata, omogenea, ed un profumo di erba bagnata dalla pioggia.
Vedo affacciarsi animali creduti estinti ma ben vivi nella mia fantasia fanciullesca, sfilano in una buffa parata che precede il corteo di altri ricordi. L'amicizia. L'amore. Il lavoro. Il passato ed il presente. Manca la mia famiglia, i miei genitori. Il mio ritorno al passato non può essere completato, mancano due tasselli fondamentali, persi nei meandri dei ricordi mai più rinnovati dopo i primi miei due anni di vita.
Papà e mamma ci stanno aspettando, andiamo.
Quello che ho avuto, è la possibilità della presa di coscienza di me stesso. Con i miei ricordi, i miei meriti, le mie colpe, le mie idee. Qualcuno sostiene che nell'ultimo attimo di vita si sfogli rapidamente il proprio passato. Quello che credo io, è che quest'attimo abbia più significato della vita stessa, poiché rimane l'unico momento in cui si prende atto di sé e della propria esistenza, nella massima sincerità, sfrondandosi delle sovrastrutture esterne e dei dogmi. Siamo quello che siamo stati. E non c'è tempo né ha senso cercare di allontanare questo attimo, che rimane l'unica cosa che ci appartiene completamente.
Respiro profondamente. Sento i campi di grano e gli uccelli e la luce della lontana Venere intonare un silenzioso canto di requiem: è un onore.
Il finestrino è aperto, del vento caldo mi accarezza la tempia.
L'automobile corre dentro il giorno, diventando sempre più chiara e confondendosi con il chiarore dell'orizzonte.