"E' passato molto tempo ma sono ancora ossessionato dalla poesia di Chinua Achebe, Natale in Biafra, che comincia così:
No, nessuna vergine col bambino potrà mai eguagliare
la scena della tenerezza di una madre
verso quel figlio che dovrà presto dimenticare.
Ho visto quelle immagini terribili su tutti i giornali e le riviste. Per la prima volta il Paese in cui avevo trascoso la parte più indimenticabile della mia infanzia veniva mostrato al resto del mondo, ma solo perchè stava morendo."
Il libro di cui vi parlo non è un racconto crudo dell'africa e delle violenze gratuite che questa terra subisce. E' invece il diario di un adulto che racconta il periodo della propria infanzia in cui scopre il continente nero ed il padre medico che ivi lavora, per tanti anni costretto lontano dagli affetti familiari.
L'autore si trova, dopo i primi anni trascorsi a Nizza insieme ad una nonna compiacente, che gli permetteva tutte le marachelle, in un africa sconosciuta ai libri per bambini ed ai racconti degli adulti benestanti dei salotti francesi, in un'area geografica considerata, e non senza imperfezioni, solo nelle mappe coloniali degli eserciti francesi, tedeschi e britannici. Un senso di libertà immenso, a contatto con il sole bruciante, i giganteschi termitai, e le violente tempeste, lo travolgerà e lo porterà da bambino a sperimentare nel gioco le peculiarità insieme pericolose e affascinanti del nuovo mondo.
Raramente ho trovato una tale lucidità nella descrizione del proprio passato. Sicuramente l'ombra della lezione proustiana (la descrizione dell'infanzia nella Ricerca del tempo perduto) è presente ma non ripara totalmente dal sole africano, che costringe l'autore ad una lucidità di sopravvivenza al proprio passato per descrivere le forti pulsazioni di un bambino a contatto con la natura più selvaggia e ostile, senza rimanerne di nuovo colpito. Lui forse sopravvive, ma io, come lettore, sono annegato nel senso di stupore di ogni pagina e ho arricchito la parola AFRICA di suggestioni e magie inarrivabili con la fantasia.
Il libro è anche dedicato al padre di Le Clèzio, un medico dell'esercito britannico, che si lega a questi luoghi e diventa profondamente africano. Ed infatti matura dentro di se il dramma lacerante dell'impotenza di fronte al dolore, e diventa per il figlio misterioso ed impenetrabile come l'africa stessa.
Rimane bloccato a Ogoja, lontano dai cari, a causa degli eventi della seconda guerra mondiale, e si rende conto per la prima volta del controllo, anche sanitario, che l'occidente usa per dominare la popolazione africana. Per la prima volta dopo anni di passione professionale sente la miseria dei corpi straziati, che nonostante continua a curare con indomita solerzia, assimilandone il dolore in maniera straziante fino nell'intimo. Poi dopo la fine della guerra il dramma di uno dei più grandi genocidi della storia dell'umanità , nel biafra, lo deruba delle ultime scintille di speranza. L'autore ricorda il padre come uno sconosciuto, lo guarda con la stessa ansia ed emozione con cui si potrebbe guardare un paesaggio dagli altopiani del Camerun e gli trasmette lo stesso alone di mistero e fascino. Per comprenderlo appieno dovrà aspettare la maturità, l'infanzia è negata una volta varcata "certe" soglie e l'infanzia di Le Clèzio ne è preservata e quindi tutto sommato è un infanzia felice.
Personalmente sono rimasto turbato dall'inizio della poesia di Achebe e dall'agoscia descritta del padre. Come si fa a credere nel destino, quando ci sono terre dove ogni donna è una Vergine Maria che ha perso il proprio figlio/a non in croce, ma con torture e menomazioni peggiori della crocifissione! Come si fa a riprendersi dalla coscienza e dalla visione di una violenza pianificata contro popoli inermi, colpevoli di essere nati in una terra sfortunata? Come si fa a non pensare che persino Dio si sia girato dall'altra parte? O forse siamo semplicemente noi, che manteniamo la testa girata verso le giostre occidentali del benessere nella speranza che il dolore non ci tocchi mai... siamo degli illusi...