La vecchiaia, e soprattutto la sua decadenza, é il piú delle volte considerato un fatto privato che nessuno vorrebbe spiattellato in televisione o al cinema o peggio in un reality. A godere la saggezza delle rughe dovrebbero essere, nel sentire comune, solo i nipoti, i parenti diretti e gli amici piú stretti, perché alla sapienza della vita si accompagna il bisogno di cure e lo sfaldarsi del corpo, di cui comprensibilmente si ha vergogna.
Per questo il film di Haneke mette disagio perché ci racconta quello che sarebbe piú delicato non raccontare: la fine della vita, che in una coppia é sempre doloroso, é un salto insieme nel vuoto, é una guerra privata in cui pian piano i combattenti cadono ad uno ad uno senza scampo. Si puó ammorbidire la durezza del soggetto mettendo come scenario la nostra cultura occidentale, che minimizza e valorizza il peso dell dolore e che gli da un significato, ma senza di questo gli ultimi attimi hanno la sembianza di una laica crocifissione, dove solo l'affetto dei cari, il ricordo e la dignita di una vita vissuta riescono ad allentare la presa dei chiodi.
Si puó non accettare la fine e gridare la propria rabba, oppure provare ad affrontarla, come fa il protagonista del film, stoicamente nell´indifferenza della figlia che si dibatte di fronte all´inelluttabilitá della fine, ma che alla fine lascia al padre l´onere dell ímpegno quotidiano nell´accudire la moglie morente. Resta la rabbia che nella maggiorparte delle persone comuni si rifugia e ha sfogo nei ricordi, e anche nel protagonista gli ultimi attimi di luciditá vanno all´ultimo concerto visto insieme, prima della fine della nostra clessidra.